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Le lezioni di vita che ho imparato a colazione con un sostenitore di Trump

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Un incontro casuale al buffet mi ha fatto pensare se invece di annuire e sorridere avrei dovuto essere stata appassionatamente in disaccordo

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Un breve scritto che tocca un problema reale. Nel dibattito politico sempre più barbaro dei nostri giorni, nel quale si fronteggiano nemici e non avversari, succede spesso che chi ha argomentazioni rinunci a parlare, per stanchezza, per senso di superiorità, a volte persino per arroganza. Si può per questo rischiare di diventare “complici” di chi la pensa diversamente, facilitandogli, con il silenzio, il percorso verso il successo e il potere?

Una giornalista del Guardian si pone il problema, per il quale oggi nessuno ha vere soluzioni, non solo per le difficoltà soggettive, ma anche perché sembra che manchi, oggettivamente, un linguaggio con il quale interloquire. (N.d.R.)

 

di Emma Brockes
(The Guardian)
Traduzione Redazione Modus

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Ero in un hotel in una zona rurale della California settentrionale, e stavo chiedendo ad un uomo seduto alla stessa tavolata della colazione a buffet cosa ne pensasse di Barack Obama. Fino a quel momento, prima di passare al suo entusiasmo per Donald Trump, avevamo parlato, affabilmente, della tossicodipendenza, del paganesimo e della probabilità che un vulcano di quell’area potesse presto eruttare. È stato a questo punto che ha iniziato a guardarmi con sospetto. La domanda, l’aveva capito, conteneva al suo interno un’accusa, così come la mia prossima domanda su Hillary Clinton. “Mi piacerebbe vedere una femmina – una femmina nera! – presidente ”, disse con attenzione. “Ma quella no.

Aveva ovviamente ragione a essere cauto: lo stavo spingendo a dire qualcosa di deplorevole. Quest’uomo, probabilmente deve essere stato nella seconda metà dei suoi 40 anni, era un ex-tossicodipendente in ripresa che lamentava la morte dei giornali locali, e pensava che il cristianesimo avesse molte colpe da espiare, il che implica che non si adattava perfettamente alle mie idee preconcette . Tuttavia gli piaceva Trump perché, mi ha detto, “non è un politico”, “non può essere controllato dalla burocrazia” e “ha messo il nostro popolo, gli americani  al centro“. L’unica cosa che non gli piaceva del presidente era “il modo in cui prende in giro le persone. Non è necessario prendere in giro le persone per farti capire.

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Non posso mai decidere, in questi incontri, dove si colloca la linea tra umorismo, far la ruffiana o lo snidare qualcuno per vedere come pensa, né fino a che punto è leggibile la mia condiscendenza. È una modalità in cui cado – una specie di leziosa moderazione caratterizzata dal suono “hmmm” – che, evitando possibili scontri con l’interlocutore, invita potenzialmente qualcuno a continuare ad impiccarsi mentre esclude la possibilità di franche discussioni.

 

Sarebbe bello, a volte penso, essere il tipo di persona che attacca con fermezza coloro che hanno opinioni politiche diverse, in appassionato disaccordo con loro. Ma la mia inclinazione, almeno con quelli a cui non sono abbastanza vicina per essere irritata, è sorridere e fare la brava.

Lo faccio con i tassisti. Lo faccio con i membri della mia famiglia che hanno votato per la Brexit – un sorriso smagliante, “hmmm!” – e con chi conosco quando sostengono quelle che considero opinioni sbagliate. È in parte pigrizia. La maggior parte di noi potrebbe, volendo, andare in giro a combattere tutto il giorno se ci sentissimo a ciò inclini, in particolare se trascorriamo del tempo su Twitter. Mi dico che la necessità di vincere una discussione con uno sconosciuto è una strana forma di narcisismo che non ti avvicina in alcun modo all’apprendimento di come pensano le altre persone. Ma anche il mio ripiegare col cenno assecondante e col sorriso lascia un cattivo gusto.

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Ho provato un po’ di simpatia per il tipo dell’albergo, e poi – un segno dei tempi – mi sono chiesta se questo equivaleva alla collaborazione. “Questa è in effetti una zona popolata da bifolchi“, mi aveva detto sardonicamente e per un secondo era sembrato che avessimo rotto la quarta parete per riconoscere le etichette strette che applichiamo l’un l’altro.

 

Il momento è passato e sono tornata a giudicare. Questa persona si sentiva debole e ammirava Trump, sentendolo come un affiliato tribale perché si allineava con la sua idea di cosa fosse essere forte. La questione se la sua vita fosse migliorata in termini materiali sotto il presidente era irrilevante. Ciò che Trump rappresentava era tutto ciò che contava.

 

 

 

 

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